mercoledì 14 marzo 2012

Il pesce al guinzaglio

Passeggiava in città con un grosso pesce al guinzaglio. Incontrò due cani neri  che allattavano una schiera di cuccioli neri.
Il suo pesce ci mise il naso e i cani gli sbranarono la testa. Il pesce non era morto ma era completamente spolpato dalle pinne in su e appariva solo lo scheletro, bianco come gesso. Però respirava ancora e aveva guizzi di dolore. Lo immerse in una enorme vasca di acqua ghiacciata ma il pesce affondò e lei dovette entrare e salvarlo a nuoto. Si sentì ghiacciare tutto il corpo.
Non voleva che il suo pesce morisse, sentiva d'amarlo molto.
Lo rimise al guinzaglio, il pesce scosse la testa scheletrita e gessosa, aprì e chiuse le mandibole spolpate e le camminò accanto. 
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martedì 13 marzo 2012

Il fiore goffo

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Il fiore è stato un bluff. Si è rivelato un goffo, sgarbato insieme di piccoli mazzi di campanule che non mai sono fiorite. Ogni involucro si arrossava e si schiudeva sul fusto, senza grazia, lasciando in libertà penduli abbozzi di fiori, disordinati. 
Brutto da far tenerezza. Lei, che aspettava un'esplosione di bellezza si è sentita tradita. In realtà lui, il fiore, non voleva deluderla né farle un affronto. 
Però l'ha tagliato via. 

lunedì 12 marzo 2012

Succede che un giorno qualunque

L'Uomo s'abbottonò la giacca, ne alzò goffamente il colletto e, con disappunto, mise la mano all'altezza della gola per proteggersi dall'improvvisa folata di vento primaverile.
“Quest'anno il caldo non ne vuole proprio sapere...” borbottò.
La Signora osservò quella mano piccola e bianchiccia, dalle unghie smorte, e fece un sorriso apparentemente benevolo ma in realtà infastidito. Noioso, sentenziò, e allungò il passo seguita dall'andatura saltellante dell'Uomo e della sua cartella antiquata che, battendo sul ginocchio, aveva piccoli moti sussultori e una vaghezza di cigolio della maniglia.
Al di là della cartella, la Collega perdeva i lineamenti in un tailleur grigio senza garbo, dalle grandi impunture e i bottoni di plastica bianca, a contrasto.
Sempre in coppia vanno questi, pensò la Signora, ed entrò nello studio con la decisione di chi, dovendo inevitabilmente affrontare una situazione spiacevole, non veda l'ora di superarla. Si sedette davanti e non dietro alla scrivania, quasi a voler togliere ufficialità all'incontro e l'Uomo le si sedette accanto, appoggiò la cartella sulle gambe, alzò i piedi sulle punte per livellare il piano d'appoggio, e l'aprì.

C'era una minuzia nei suoi gesti, un'attenzione nel concentrarli in brevi scatti, del tutto consone alla sua bassa statura, alla figura insignificante. Gli occhi, dal colore neutro, indeciso, leggermente sporgenti, seguivano l'azione con uno sbattere di ciglia svelto e regolare, come un metronomo. I capelli corti e incolore, diradati sulle tempie, stavano ritti sul capo tondo, senza contrasto cromatico.
Sembra un insetto, pensò la Signora. E, come un insetto, l'Uomo porse l'orecchio buono alla Collega, con una leggera mossa del collo, abbassando un poco la spalla, sollevando appena il mento, e annuì.
Poi estrasse dei moduli e li allineò con precisione sul piano, rispettando la simmetria dei bordi della scrivania e della sovrapposizione dei fogli.
La Collega lasciò vagare il pensiero e si perse nella noia della solita routine.

L'Uomo svolgeva uno di quegli ingrati lavori statali di controllo che inibiscono qualsiasi rapporto di simpatia con l'interlocutore. La malcelata insofferenza degli utenti all'inizio lo aveva mortificato ma, col passare degli anni, aveva sviluppato un livore di rivalsa che si era cronicizzato nel suo modo di essere sbiadito e vendicativo.
Il lavoro non gli piaceva, in più era frustrante che tutti  non vedessero l'ora che si togliesse dai piedi. Controllava, sanzionava e se ne andava. E più sanzionava più imprecavano e più lo sfuggivano. Era un circolo vizioso nel quale era rimasto intrappolato e dal quale non poteva più uscire.
Il lavoro lo schiacciava, lo isolava in un mondo nel quale, per altro, occupava poco spazio. Non era attraente, non era loquace, sentiva da un orecchio solo. Soffriva di gastrite ed emetteva a tratti dei lievi sibili sgonfiando le guance per rilasciare disgustosi accumuli d'acidità. Si muoveva senza grazia e sapeva di non piacere. Aveva quell'età di mezzo che ha dimenticato i sogni della gioventù per stabilizzarsi nel grigiore dell'insoddisfazione. Senza moglie, né famiglia, né amici. Senza passioni.

L'Uomo seguì il lento protocollo dei moduli. Domande, risposte, verifiche, cercando di scoprire in un'inflessione di voce, in un'esitazione, l'appiglio per approfondire ed esercitare il suo potere.
La Signora era efficiente fra schedari e mappe catastali ma, allo stesso tempo, era innervosita dal fatto che, qualcosa che non va lo dovranno pur trovare
Sicura nei modi, aveva una sensibilità retrattile che difficilmente mostrava, più per discrezione che per sfiducia, e le sue emozioni, sovente trasformate in ironia, erano riservate agli amici con i quali aveva condiviso il percorso più lungo. Era positiva, indipendente, ma quello che sembrava un buon carattere era in realtà un modo d'essere complesso e spesso tormentato.

L'Uomo accavallò le gambe dondolando il piede calzato di nero. Il gesto scoprì la pelle del polpaccio fra il calzino, corto e triste, e il risvolto del pantalone. E quel lembo di pelle, così chiaro e traslucido, in contrasto col nero sfinito della stoffa, sembrò alla Signora patetico e impudico. Come se l'Uomo avesse aperto uno spiraglio intimo attraverso un contatto visivo del tutto meccanico e del quale non aveva coscienza.
Osservava la sua meticolosità, incuriosita dalla pochezza vitale dell'Uomo, chiedendosi cosa ci fosse dietro a quel tipo così simile ad un insetto da sembrarle ridicolo.

Quando non lavora di cosa si occupa? gli chiese.
L'Uomo girò gli occhi rotondi verso di lei con la palpebra bloccata a mezz'occhio e tardò un attimo a riprendere il sistematico sbattere di ciglia ancor più svelto e irregolare. Era disorientato dalla domanda, per lui, inusuale. 
Appoggiò la penna parallela ai fogli, la spinse col pollice per correggerne la verticale, prese fiato e tempo, mosse la testa e scatti veloci a destra e a sinistra come una libellula.
"Beh... io... veramente... non saprei..." tentò di ritrarsi.
Poi, all'improvviso, parve prendere vigore, e in quel rianimarsi c'era una sorta di gratitudine per una domanda che da tempo nessuno gli rivolgeva, perché a nessuno interessava sapere che cosa facesse del suo tempo, e tanto meno pensava potesse interessare alla Signora, per la quale provava una certa soggezione unita alla solita ostilità di ruolo e al desiderio di punirla per essere ciò che era, o ciò che sembrava essere.
"Avevo una passione... tante ore d'appostamento, di studio, di catalogazione... troppo troppo tempo..." confermò come fra sé "...ero appassionato di entomologia... ma adesso, sa..." e volse gli occhi esitando, incerto sull'approvazione di lei.

Oddio non ci posso credere! Un insettologo! rise in cuor suo la Signora sentendosi presa nella sua stessa trappola mentale e sconcertata dal potere che quell'identificazione avesse fatto assumere all'Uomo movenze e fisicità d'insetto.
Non ho mai conosciuto un entomologo, dev'essere un mondo affascinante, disse pronta ad ironizzare.
"Affascinante sì, ma... sa... poi... il lavoro..."
E, incoraggiato da quello che intese come interesse, l'Uomo si lanciò in una spiegazione fitta di appostamenti solitari, di silenziose ore nel bosco dove trasferiva la sua mancanza di contatti umani alla ricerca di esperienze naturali apparentemente minime ma in grado di creargli emozioni. 
Cercava, catalogava, approfondiva, interiorizzando processi di vita misteriosi, trasformazioni magiche.

Raccontava, in tono concitato, che aveva perfino scritto un libro sull'evoluzione della farfalla comune, che gli era costato notti di ricerca, in un isolamento che lo aveva estenuato.
Piano piano l'esaltazione verbale si smorzò in un accavallamento di parole che divenne un brontolio indistinto, un ronzio, che si perse fra i rumori diurni, finché in lui e intorno a lui tutto fu un silenzio solido, totale.
E in questa sua realtà rarefatta, l'Uomo guardò la Signora e la vide bellissima, maestosa, immensa sopra e dentro di sé che via via rimpiccioliva  con una violenta sensazione di calore che, dal punto esatto del cuore, si diramava agli arti, al collo, fino al cervello risucchiando e dissolvendo ogni cellula del corpo convergendola in mezzo al petto dal quale era partita la ribellione al suo non essere, al non esistere.
E provava un senso di abbandono, una serenità sconosciuta, nella consapevolezza di volersi perdere in quel silenzio, mentre avveniva in lui una metamorfosi liberatrice che lo esentava da ciò che per sua natura è complesso e che non era mai riuscito a comprendere.

La Signora era certa fosse successo qualcosa ma non avrebbe saputo dire che cosa. Una sensazione indefinita di atemporalità dalla quale si scosse. 
Si guardò intorno, nulla era cambiato. I moduli ordinati sulla scrivania, la penna accanto ai fogli, la Collega insonnolita.
Dalla porta socchiusa dello studio aveva percepito come un passaggio veloce, un'energia differente. Ma la sedia accanto a lei era vuota e sul "Verbale 711" c'era una farfalla bianca macchiettata di nero.
Perplessa la Signora la prese delicatamente e la liberò nell'aria. 

Si soffiò dai polpastrelli la polverina delle ali.

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domenica 11 marzo 2012

Nudo di spalle

Il quadro a olio era un nudo di spalle, androgino, vagamente diavolesco e subdolo sia nella posizione che nella non dichiarata definizione del sesso. Le mani morbide, quasi lievitanti da braccia muscolose e disegnate con tratto fermo e michelangiolesco, avevano unghie appuntite, mefistofeliche e si protendevano in una posizione che poteva essere d’offerta o di richiesta, indifferentemente.
Il sedere era troppo tondo per essere maschio. L’anca s’incurvava scaricando il peso del corpo sulla gamba sinistra che scompariva dietro a quella in primo piano e lo sbilanciamento creava una torsione, un’inclinazione vezzosa che smentiva la prestanza delle spalle, la forza del collo e la sfericità della testa, totalmente senza capelli, da sala d’anatomia.
Era un dipinto inquietante per la chiarezza della sfida e il dualismo dell’immagine. I lineamenti e una parvenza di sguardo erano negati dal volgere della testa verso lo scuro abissale del fondo, nel quale la figura si integrava e si staccava, come se al di là ci fosse un orizzonte diverso, una visione misteriosa per la quale convenisse dare le spalle all’osservatore.
Il dubbio del pennello aveva creato con chiaroscuri una specie di canottiera, che denudava invece di coprire e che sembrava generata dalla pelle stessa, tanto era impossibile stabilire la benché minima linea di demarcazione fra il corpo e la stoffa, che s'immaginava impalpabile e viva.

Quel quadro emblematico, l'aveva sempre affascinata, perché identificava i nodi della sua esistenza e faceva emergere le sue angosce. Pensava che anche da quella testa da tavolo di anatomia, così come dalla sua, potesse realmente scaturire il pensiero di dare le spalle alla realtà e lasciarsi inghiottire dal buio definitivo del fondo.
Ma poi si rese conto che quel nudo aveva anche un non so che di beffardo, notò come l’ancheggiare fosse irritante, il neo sulla guancia provocatorio e l'ambiguità del sesso sconveniente.

E fu lei a girargli le spalle. 

Cose di neve

La neve se n'era andata quasi del tutto portandosi via quella luce particolare che le piaceva guardare dal letto. Si stendeva al buio e lasciava vagare lo sguardo immaginando che due linee luminose le partissero dagli occhi e s'allargassero sul prato bianco, per ritornare indietro cariche di un pulito nuovo, che faceva bene all'anima.
Amava la luce e la voce della neve. O la non-voce, perché il silenzio era così compatto che sembrava fermasse l'aria, e le faceva anche un po' paura.
Così doveva essere anticamente: la natura che sovrasta l'uomo e lo fa riflettere. E cercare qualcosa al di fuori di sé, uno spirito, forse un Dio. Degli uomini e delle cose.

Certe volte usciva a camminare nella notte. Non c'era altro rumore che il suo passo sulla neve secca. Uno scricchiolio leggero, uno sfregamento di fiocchi che si comprimevano sotto il suo peso. E la sensazione di essere sola al mondo in quel silenzio strano, non riproducibile, senza odore.
Si sceglieva i percorsi, per non pesticciare disordinatamente il bianco. E al ritorno appaiava le stesse impronte dell'andata, accanto, punta tacco, tacco punta, perché nella vita, comunque vadano le cose, c'è sempre un'andata e un ritorno, e l'uno e l'altro devono essere armoniosi.
Ma quel giorno la neve, fradicia dal pomeriggio, impozzangherava i prati.

Quella notte avrebbe chiuso le tende.

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C'è tramontana

Tempaccio. Il vento è insopportabile, freddo e ansiogeno. Fischia forte, piega le canne e le cime degli alberi, l'innervosisce. Si fa notare, il vento, anche se lei fa finta di niente. Ed è speciale nell'ignorare, lei. Quello che non sa, che non vede o che ignora, non esiste.

Così sogna. Sempre lo stesso sogno, notti e notti di seguito, cambia solo l'intorno. Ci sono tutti e due, i più vicini al suo cuore. Lei è viva e le dice che è malata. “Passerà, vedrai che presto starai bene.” Ma sa che no, lo sanno tutte e due. Non ha un bel colore, è grigiastra, anche nel sogno. Lui sì è bellissimo, ma resta in disparte. Non interviene. È solo bellissimo. E neutro.
Forse lei si è reincarnata proprio adesso, di certo il vento le dà fastidio, la fa volare via. E il suo posto è là, nell'aria, sopra la pineta.

Non pensa al passato. I suoi ricordi sono del tutto involontari, si presentano e non li elabora né li sollecita, non li trattiene. Ieri e oggi, sullo stesso piano. E il domani. Per questo sogna tanto ogni notte.
Pensa per un attimo a un'altra amica, che vive nel passato, che non riesce a staccarsi dalla sua infanzia. È malata di nostalgia. Lo trova terribile, un modo per non vivere.

È che anche nei sogni, siamo tutti così tremendamente soli.